AUGUSTA – Nessuno avrebbe mai pensato di trovare all’interno della stiva del relitto del peschereccio carico di migranti inabissatosi il 18 aprile del 2015 nelle acque del Canale di Sicilia, a 370 metri di profondità, dove è stato recuperato il mese scorso per volontà della Presidenza del Consiglio dei Ministri, un numero così alto di cadaveri, ben 675.
Un numero destinato a salire, se si considerano anche i “body bags”, ovvero resti umani ritrovati che spesso appartengono a più di una persona, inserite in sacche. Troppi i morti custoditi in quel grande cimitero che è diventato il Mediterraneo.
Le squadre dei Vigili del Fuoco impegnate notte e giorno nel delicato recupero dei cadaveri, nella struttura realizzata nel pontile Nato di Melilli, hanno con grande professionalità e, soprattutto, umanità, portato a termine l’operazione che ha coinvolto circa 150 persone al giorno tra cui, oltre ai Vigili del Fuoco, personale della Marina Militare, del Corpo Militare della Croce Rossa Italiana, delle Infermiere Volontarie della Croce Rossa.
Adesso sarà compito dell’equipe di medici legali universitari, guidati dalla professoressa Cristina Cattaneo del Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense, identificare i cadaveri e i resti, provando a dare un nome ai tanti migranti, uomini, donne e bambini, che viaggiavano, assiepati in pochissimi metri quadri, nel barcone della morte.