A 24 anni dalla strage di Capaci, tra celebrazioni e antimafia di facciata, quando tutto diventa “consuetudine”

strage_capaci3Ventiquattro anni fa la mafia metteva in atto uno dei delitti più efferati della sua turpe e sanguinosa  esistenza, 400 kg di miscela esplosiva in uno stretto cunicolo dell’A29 nei pressi di Capaci, per uccidere un magistrato coraggioso, Giovanni Falcone.

In quella strage trovarono la morte anche la moglie di Falcone, Francesca Morvillo, e tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Si salveranno gli altri tre agenti, Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello, e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza.

Qualche mese dopo, in via D’Amelio a Palermo, la scena si ripeterà con un’auto bomba che ucciderà Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta (Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina).

La mafia aveva alzato il tiro, utilizzando le stragi, uccidendo indiscriminatamente chiunque si trovasse nel raggio di quelle micidiali esplosioni. Obiettivo cancellare i due magistrati del maxiprocesso. Due servitori dello Stato dalla schiena dritta, come ce ne sono tanti, convinti di poter dare un colpo non indifferente al potere criminale, alle coperture e connivenze di cui godevano, e godono tuttora, la mafia e i mafiosi, ad iniziare dagli intrecci meschini e altrettanto criminali con il potere politico.

Quelle connivenze e quegli intrecci diventati anche “trattativa”, come se si può trattare con dei criminali stragisti che usano la violenza, l’intimidazione, la morte, per piegare la società per i loro sporchi interessi.

A distanza di 24 anni da quelle stragi che oggi tutti ricordiamo e celebriamo, anche chi quelle trattative ha condotto o ne è a conoscenza in tutto o in parte, la mafia è ancora qui a tormentare le vite di tanti, a farsi potere, cambiando pelle e strategie, diventando finanza, annidandosi in ampi strati della pubblica amministrazione e dello stesso Stato, cambiando anche nome, diventando corruzione.

In quella pubblica amministrazione e quello Stato che, al contrario, dovrebbero fare da muro e  garantire legalità e sicurezza ai cittadini.

Come da muro dovrebbero fare, se vogliamo debellare questo male atavico, che oggi appare cronico ma cronico non è, le nostre quotidianità, i nostri comportamenti, nella vita come nei ruoli che ricopriamo nella società.

E invece, purtroppo, la nostra quotidianità e i nostri ruoli, spesso, magari come si dice oggi, “a nostra insaputa”, offrono terreno fertile per l’attecchimento di questo male che appare sempre più incurabile, tra celebrazioni e antimafia di facciata, tra sentirsi a posto le coscienze, o pensando di lavarsele, ricordando una data di dolore e deponendo una corona di fiori.

Ma la mafia, come ha scritto ieri Salvo Vitale  su “il Compagno.it”, giornale di controinformazione sullo stile di Radio Aut di Peppino Impasto, non è una persona, non è una cosa astratta. La mafia è un’idea dell’esistenza. La mafia è una interpretazione della vita, e chi vi aderisce è un mafioso. Anche se non lo sa. Anche se non se lo vuole dire. Sempre mafioso è”.

I comportamenti, dunque, sono d’accordo con Salvo Vitale, sono quelli che dovremmo modificare nella nostra quotidianità, nelle nostre scelte, più che dare sfogo alle celebrazioni che diventano “rito” e “consuetudine”, questo modo di essere che si sostituisce alle regole, alla legalità, ai meriti, ai diritti e ai doveri.

E allora, meno celebrazioni, più memoria per conoscere il passato e poter costruire il futuro, sin da piccoli nelle fasi educative, nei comportamenti, nelle scelte, con la buona politica e la buona amministrazione. Una quotidianità sana per uccidere le consuetudini e i riti diventati solo spettacolo, svuotati di ogni contenuto sociale.

Si, perché non hanno più senso le celebrazioni “vuote”, magari accanto a chi produce consuetudine, fa diventare la mafia management e finanza, la trasferisce o la impianta senza alcuna difficoltà o resistenza civile da una regione all’altra, lasciando magari scie di sangue qua e la.

Questo stato di cose, fa male dirlo, ma uccide ancora una volta Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, e le tante vittime  di quella vecchia e di questa moderna consuetudine.

 

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