L’America sceglie il suo 45° presidente, il “rozzo” e “duro” Donald Trump, sconfitta la democratica Hillary Clinton

Il nuovo presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, e la sfidante Hillary Clinton
Il nuovo presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, e la sfidante Hillary Clinton

La grande notte (per noi italiani), il grande giorno per l’America, si è concluso e il 70enne imprenditore miliardario Donald Trump, repubblicano, è il 45° presidente degli Stati Uniti. Ha battuto, conquistando 310 dei 538 grandi elettori, in quella che è stata considerata sin dall’inizio una “folle corsa”, la super candidata democratica, la 69enne Hillary Clinton (fermatasi a 228 grandi elettori ma ricevendo più voti popolari del suo avversario), ex segretario di Stato, ex senatrice dello stato di New York ed ex first lady degli Stati Uniti dal 1993 al 2001 accanto al marito Bill.

Un risultato che non ha sorpreso, considerata la scalata di Trump sin dalle primarie, ma che certamente ha suscitato clamore, e che ha, questo si, fatto saltare le previsioni e gli “endorsement” della stampa americana ed internazionale, che immaginavano, seppur con un ottimo risultato del “rozzo”  conservatore miliardario, la vittoria di Hillary, nel proseguo di una “dynasty”,  e nel lavoro di 8 anni di presidenza democratica del primo presidente nero degli USA, Barack Obama.

Ma l’ex segretario di Stato, seppur con idee progressiste, di mantenimento dei diritti per le fasce più deboli già garantiti da Obama, ad iniziare dalla legalizzazione degli immigrati clandestini, in particolare ispanici, al garantire l’assistenza sanitaria a chi non può permettersi un’assicurazione privata, a proseguire i finanziamenti per la riduzione delle emissioni inquinanti nell’atmosfera come deciso dal vertice mondiale di Parigi,  pensare alla riduzione delle armi, vero incubo negli Stati Uniti, e ancora diritti di genere e tassazione per i ricchi, tanto per citare alcuni impegni assunti, alla fine non ha saputo parlare, come il suo più duro e combattivo avversario, alla “pancia” degli americani. Al vivere quotidiano.

Cosa diversa del suo compagno di partito Bernie Sanders, sconfitto alla primarie democratiche, di idee più radicali, più di sinistra si direbbe, il cui linguaggio non è mai stato rivolto solo al ceto medio ed oltre, ma soprattutto a quello più basso, a quello delle periferie, alle donne, ai giovani, ai disoccupati, ai senza diritti, agli immigrati. Cioè a quel quotidiano che con tutti i suoi problemi e le sue contraddizioni si tocca con mano.

Non è un caso che parte dell’elettorato democratico afroamericano, quello delle periferie, quei cittadini  che spesso, più di altri, più dei bianchi, vengono incarcerati o freddati per le strade dalla polizia, alla fine si siano fidato del “duro” Trump, pur sapendo di essere l’ultimo pensiero del nuovo presidente, ma consapevoli che in questi 8 anni di guida del primo presidente nero, nulla è cambiato nella loro condizione di vita.

Stesso discorso per le donne e i giovani, o per gli ispanici impauriti dal fatto di dover eventualmente difendere, ad esempio, i posti di lavori con nuovi competitori, i nuovi immigrati che la Clinton avrebbe legalizzato in caso di vittoria.

Insomma, i Democratici non hanno saputo offrire al popolo americano un valido candidato “alternativo”, e quello più credibile che avevano, Sanders, l’hanno lasciato a bordo campo. Un problema che chiaramente dovranno affrontare per il futuro, iniziando a far crescere un nuovo candidato, possibilmente giovane, per il prossimo scontro contro il colosso Trump se questi opererà bene, o nella normalità, e concluderà il mandato

Dal canto loro i Repubblicani, che oggi con questa vittoria controllano sia Camera che Senato, spaccati com’erano, sono stati costretti, gioco forza, come si ricorderà nella fase delle primarie, a sorbirsi e a subire l’impatto di un travolgente Trump, privi com’erano di un candidato all’altezza di guidare la più grande potenza mondiale, non solo dal punto di vista militare, ma soprattutto nella gestione dei conflitti e nella politica estera, oltre che nella sicurezza interna, senza dimenticare l’economia e la competitività di un mercato globale nel confronto con potenze quali la Russia, al neo presidente molto più vicina, e la Cina.

Ma la democrazia e l’autodeterminazione dei popoli (cosa che negli anni passati gli USA non sempre hanno rispettato quando si è trattato di altri Paesi) sono affascinanti proprio per questo: per l’imprevisto. E la scelta del popolo americano nel dare un nome ed un volto al loro 45° presidente, va rispettata sino in fondo.

È chiaro però che da adesso gli americani dovranno fare i conti, al loro all’interno, così come anche gli altri Paesi, Italia compresa, ma più in generale l’Europa (si spera unita e unanime in questo), con la politica ed il programma illustrato da Donald Trump in questa campagna elettorale.

Ad iniziare dalle scelte sulle politiche ambientali e climatiche, che lo vedono su fronti contrapposti a quanto deciso nel vertice di Parigi, alla politica sull’immigrazione (fuori i messicani, costruzione di un muro al confine col Messico, rivedere le scelte sul mondo arabo, solo per citare alcune sue esternazioni), al mantenimento dell’assistenza sanitaria e i diritti per le fasce più deboli, senza fare esplodere conflitti sociali, alla questione sulle armi che vuole mantenere, ai rapporti nelle aree di conflitto, e via dicendo.

Anche se, dopo il voto, nella sua prima dichiarazione, abbandonando quell’area arrogante e dura della campagna elettorale, il nuovo presidente eletto degli Stati Uniti ha parlato di unità del Paese e di evitare lacerazioni.

«Per repubblicani e democratici è arrivato il tempo dell’unione. Dobbiamo collaborare, lavorare insieme e riunire la nostra grande nazione. I dimenticati di questo Paese, da oggi non lo saranno più», sono state le parole di Trump per la politica interna.

Quello che si attende è sapere anche quale sarà il rapporto con i Paesi alleati e con tutti gli altri, dal  Medio Oriente alla Cina, quest’ultima in quanto terza incomoda, tra America e Russia, nella corsa alla globalizzazione economica e dei mercati, anche se una prima risposta ai risultati elettorali americani è arrivata dalle Borse con il crollo di quelle di Tokyo e Hong Kong.

Sta di fatto che per l’America, e per il mondo, anche in termini di distensione, si apre una nuova pagina, piena di incognite, dopo gli anni a “zig zag” di Obama.

 

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