La svolta della “Bolognina”, 25 anni fa moriva il PCI

Per raccontare il venticinquennale, a qualche giorno di distanza dalla caduta del Muro di Berlino, di uno dei più importanti avvenimenti storici del nostro Paese, che di sicuro ha segnato la politica di questo ventennio, mi riferisco alla svolta della Bolognina, che portò Achille Occhetto, allora segretario del più grande Partito Comunista dell’Europa occidentale, ad annunciare la “morte del PCI”, il partito che era stato di Gramsci, Togliatti e Berlinguer, il partito della “terza via” italiana al socialismo, ho pensato di riportare un bellissimo articolo-reportage di quel 12 Novembre 1989, scritto da Leonardo Nesti e pubblicato il 9 novembre scorso sull’Ansa Magazine #38. Un racconto da dove traspare non solo la storia di quel momento, ma anche i sentimenti e le emozioni che quell’evento hanno prodotto. Per questo lo trovo vero. Eccolo.
                                                                                                                         Gaetano Guzzardo
Il discorso alla Bolognina
Il discorso alla Bolognina

Ci  sono dei giorni in cui la storia ti viene addosso. Se succede non puoi spostarti, devi solo decidere come assecondarla. Puoi anche decidere quale parte fare, consapevole del fatto che sono cose che non ti capitano spesso. E se non sei preparato, non importa.

Il 12 novembre 1989 era una domenica. Il muro di Berlino era caduto da tre giorni ed a Bologna si stava celebrando il 45esimo anniversario di una battaglia partigiana, la battaglia della Bolognina.

Achille Occhetto era arrivato a sorpresa a Bologna. Il suo intervento non era in programma in quella manifestazione di una retorica e di una solennità austera ed antica, quasi inimmaginabile nella società della comunicazione.

Nelle prime file c’erano solo partigiani, non più giovani, ma ancora forti. Erano quelli che 45 anni prima sparavano dalle finestre contro i nazifascisti, gli stessi che nei 45 anni successivi si erano gettati in una passione politica travolgente, che avevano subito tante sconfitte, ma che avevano anche costruito, a Bologna ed in Emilia-Romagna, nelle amministrazioni locali e nelle cooperative, un modello economico e sociale che inseguiva un sogno fatto di uguaglianza e democrazia, lavoro e mercato. Consapevoli, forse prima di altri, che l’esempio dell’Unione Sovietica che si stava sgretolando con il muro di Berlino, era fallito da tempo.

Il dibattito su un possibile cambio del nome del Partito comunista era già presente da mesi. Ne aveva parlato, fra gli altri, l’attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, all’epoca eterno oppositore, su posizioni più moderate, di chi nel partito comandava.

Dopo la caduta del muro, Occhetto pensò che quel dibattito era maturo per entrare negli organismi dirigenti del Pci, la storia correva forte e non ci si poteva lasciar travolgere. Sarebbe stato doloroso – pensò – ma non si poteva fare altrimenti. E pensò anche che i primi che dovessero saperlo erano loro, i già incanutiti partigiani bolognesi, che avevano combattuto, avevano sparato, avevano sognato un mondo migliore ed avevano provato a costruirlo. Sarebbero stati gli unici a non anteporre il sentimento alla realtà. E lo avrebbero capito.

Achille Occhetto
Achille Occhetto

Occhetto arrivò a Bologna e si diresse in quella sala. Non era, come molti continuano a credere e tramandare, una manifestazione di partito e non si svolse in una sezione. Era un’iniziativa organizzata da Anpi e istituzioni nella sala del quartiere Navile, di via Pellegrino Tibaldi.

Ad accompagnarlo, in macchina, c’era colui che lo aveva invitato alla Bolognina, Lino Michelini, il mitico comandante William, medaglia d’argento al valore militare, ferito ad una gamba durante un’azione al carcere di Bologna e, soprattutto, eroe della battaglia di Porta Lame quando un piccolo gruppo di partigiani riuscì a sfuggire all’accerchiamento dei repubblichini e dei nazisti: episodio decisivo nella Liberazione bolognese.

“William, è caduto il muro, dobbiamo pensare a nuove strade, compreso il cambiamento del nome. Tu che ne pensi?”, azzardò l’ultimo segretario del Pci. Michelini lo guardò negli occhi e lo rassicurò: “Non è il nome che conta, ma gli ideali che abbiamo nel cuore. Lo capiranno, vedrai”. Occhetto si convinse e si presentò serio davanti a quella platea.

Chi è abituato alla politica dei tweet, delle convention, dei salotti televisivi, se quella domenica mattina fosse stato alla Bolognina, probabilmente della svolta non se ne sarebbe neanche accorto.

Il discorso di Occhetto fu brevissimo, durò cinque minuti, apparentemente criptico. “Prima di avviare i grandi cambiamenti in Unione Sovietica, Gorbaciov ha incontrato i veterani della seconda guerra mondiale dicendo loro: voi avete vinto la guerra, e se ora volete che non venga persa è necessario non conservare ma avviare grandi trasformazioni. Da questo traggo l’incitamento a non continuare su vecchie strade, ma ad inventarne di nuove per unificare le forze del progresso”.

I partigiani erano gente pratica, molti di loro erano stati operai e avevano studiato poco. Ma al linguaggio di quella politica erano avvezzi e capirono al volo che qualcosa di grosso stava per succedere. “Dal momento che la fantasia in politica sta galoppando – proseguì Occhetto – è necessario andare avanti con lo stesso coraggio di allora. L’Europa è in una grande fase di dinamismo ed ognuno deve fare la sua parte”.

Enrico Berlinguer
Enrico Berlinguer

Una delle cose che fa forse maggiore impressione sul cambiamento del modo di fare e di raccontare la politica è la copertura giornalistica di quell’evento. Oggi siamo abituati a vedere torme di telecamere inseguire e assediare personaggi politici che a volte dicono cose di cui l’indomani non si ricorderà più nessuno. I giornalisti che assistono alla svolta della Bolognina sono due: Walter Dondi, che all’epoca raccontava la politica locale per l’Unità e Giampaolo Balestrini, giovane praticante dell’ANSA.

Che forse non capiscono di essere di fronte alla storia. Ma sicuramente capiscono al volo che sono davanti ad una notiziona e dopo la cerimonia avvicinano Occhetto perché vogliono saperne di più, vogliono sapere cosa ha realmente in testa il segretario del Pci, al di là di quelle parole così composte ed enfatiche.

“Segretario – chiedono con una certa insistenza, sfidando più volte la sua ritrosia – cosa lasciano presagire le sue parole”. “Lasciano presagire tutto”, risponde secco lui. “Lasciano presagire anche un cambio del nome?”. “Scrivete che lasciano presagire tutto”. La svolta della Bolognina si è compiuta così.

“Io capii – racconta Dondi – che quelle parole avevano un significato e per questo andammo a chiedere ad Occhetto cosa quelle parole lasciassero veramente presagire”. Il giorno dopo l’Unità aprì la propria prima pagina con il nuovo primo ministro della Repubblica democratica tedesca. In taglio basso, il pezzo di Dondi con un titolo quantomai prudente: l’Unità, il cui direttore era Massimo D’Alema, era l’organo ufficiale del Partito comunista italiano e certo non poteva permettersi di titolare a tutta pagina una mezza frase strappata al segretario che avrebbe potuto cambiare per sempre la storia del partito e della sinistra italiana.

“Noi – dice Giampaolo Balestrini – scegliemmo di raccontare esattamente come erano andate le cose, una cronaca asciutta di quei fatti. Io ero stato assunto all’Ansa da dodici giorni ed ebbi la fortuna di trovarmi davanti ad una svolta che solo dopo abbiamo capito essere storica”.

La sala della Bolognina
La sala della Bolognina

Già da quel momento chi segue il dibattito politico italiano ha capito che il Pci non esiste più.

Pietro Ingrao, storico leader della sinistra del partito, si trova a Madrid. I suoi collaboratori più stretti gli riportano notizie frammentarie e un po’ contraddittorie: un po’ per non urtarlo eccessivamente, un po’ perché quella svolta ancora non era chiarissima.

Lo diventa però nei giorni successivi quando il segretario pone il tema che aveva accennato ricordando gli eroi partigiani della Bolognina nelle sedi di partito più opportune: la direzione e il comitato centrale. Occhetto parla di una “nuova forza politica, che in quanto nuova cambi anche il nome”.

Ci vorranno ben dodici giorni al comitato centrale del Pci per discutere ed approvare la relazione del segretario, che alla fine passa con 219 sì, 73 no e 34 astenuti. Ma non senza traumi. L’ala che fa riferimento a Pietro Ingrao ribadisce la sua contrarietà e fuori da Botteghe Oscure, storica sede romana del Pci, non mancano le contestazioni dei militanti che non vogliono che il loro partito cambi nome e cambi identità.

Nel marzo del 1990 il partito tiene a Bologna un congresso drammatico. La mozione di Occhetto, che propone di concretizzare la svolta, ottiene il 67%, ma quella sostenuta dai due grandi vecchi Pietro Ingrao e Alessandro Natta raccoglie un non certo trascurabile 30% dei consensi. La loro proposta è di non cambiare, di continuare a chiamarsi Pci, di mantenere la falce e il martello. Alle regionali di maggio, le ultime con quel nome e quel simbolo, il Pci crolla, prendendo una delle percentuali più basse della propria storia.

In ottobre si decide il nuovo nome: non Partito del lavoro, come vorrebbe qualcuno, ma Partito democratico della sinistra: il suo simbolo è una quercia, albero forte, dalle radici profonde, che ha alla propria base la falce e il martello. Serve un altro congresso, tuttavia, perché quel partito cominci realmente ad esistere, quello di Rimini, nel febbraio del 1991.
Sono passati quindici mesi da quella domenica alla Bolognina e l’Europa è cambiata con una velocità impressionante. Un gruppo consistente dei dirigenti comunisti non partecipa alla nascita del Pds e aderisce a Rifondazione comunista.

Seguono anni in cui i cambiamenti si susseguono, la politica si fa più veloce, il suo racconto più spigliato. Oggi, in quella sala dove Achille Occhetto annunciò uno dei cambiamenti più radicali della storia politica della Repubblica italiana c’è un parrucchiere cinese. (Leonardo Nesti – Ansa Magazine #38)

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